venerdì 24 maggio 2013

Bambini e draghi


Un mese fa leggevo su “Repubblica” che Walt Disney Italia ha commissionato una ricerca per studiare la centralità delle fiabe nel percorso di formazione del bambino. I genitori interpellati hanno evidenziato come le fiabe aiutino i loro bambini, oltre che ad addormentarsi, a sviluppare il linguaggio, a passare del tempo di qualità insieme. Al bambino le favole piacciono, le chiede. E i genitori le raccontano. Lo fanno di solito le mamme, ma i padri quando lo fanno sono più creativi, hanno più fantasia e spesso inventano loro stessi le storie.
Anche in casa nostra è così. Io leggo, mio marito inventa. E Gioele non si è mai lamentato se Cappuccetto Rosso diventa una bambina che gira per i boschi del Chianti a caccia di cinghiali parlando in toscanaccio.
Albert Einstein diceva: “Se volete che vostro figlio sia intelligente, raccontategli delle fiabe. Se volete che sia molto intelligente, raccontategliene di più”. Ma perché è così importante raccontare fiabe ai nostri figli?
Noi esercitiamo la narrazione quotidianamente. È grazie ad essa che diamo un senso, comprendiamo e spieghiamo l’esperienza, ed è per questo che è così fondamentale nella crescita del bambino. La narrazione consente di rielaborare le esperienze, crea mondi alternativi, dà la possibilità di trovare soluzioni differenti da quelle già sperimentate, è una fonte di esperienze emotivamente positive e motivanti.

In particolare la fiaba ha delle caratteristiche peculiari che la rendono un veicolo importantissimo di risposta ai bisogni primari del bambino, così come sottolinea ad esempio lo psicoanalista Bettelheim.
La realtà viene narrata nel contesto fantastico della fiaba, senza essere toccata direttamente ma tramite simboli, e permettendo al bambino di tornarvi, dopo un viaggio immaginario, con maggiori rassicurazioni. Vengono affrontate in un contesto protetto alcune situazioni che consentono al bambino di elaborare e affrontare le difficoltà della vita e le emozioni cui si trovano a fare fronte, come il desiderio di essere amati, la paura di essere rifiutati o della morte, semplificando le situazioni con protagonisti ed eventi simbolici, che rimangono sempre abbastanza indeterminati da potervi proiettare contenuti personali.
Traducendo in immagini visive gli stati interiori del bambino, la fiaba si presta a diventare una metafora di vita: narra vicende, peripezie, tormenti e dolori che accompagnano il protagonista nel processo di maturazione e infine alla mèta, e lo segue mentre si libera dagli impedimenti che – lungi dal farlo soccombere – lo fortificano. La storia fiabesca spesso comincia con il protagonista simbolicamente in una fase di resistenza, di paura di crescere, e termina quando – raggiunta l’indipendenza psicologica – ha finalmente trovato se stesso.
Nella realtà tutti abbiamo un carattere ambivalente, ma nella fiaba questo non accade: i personaggi sono divisi in buoni e cattivi, incarnano il bene e il male spesso in senso assoluto, le situazioni sono esemplificate creando un dualismo che permette più facilmente la risoluzione dei conflitti interiori, perché si rende chiaro e distinto ciò che nella realtà è spesso confuso. Così, il conflitto interiore è facilmente risolto nella fiaba.
Senza contare che condividere l’esperienza del raccontare aiuta genitori e figli a creare un linguaggio comune, facilitando la costruzione di un intenso rapporto affettivo.
Concludo con un famoso aforisma di Chesterton, che sempre mi emoziona:
“Le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono, loro lo sanno già che esistono. Le fiabe insegnano ai bambini che i draghi si possono sconfiggere.” 

Vi aspetto martedì 28 maggio alle 20,30 alla Sala Pucci a Modena (via Canaletto 110) per la conferenza attiva "C'era una volta... Il ruolo della fiaba nello sviluppo del bambino"

mercoledì 10 aprile 2013

Perché una psicoterapia?


A tutti possono capitare periodi di sofferenza o di forte disagio, e può accadere che questo disagio interferisca con le attività quotidiane e le relazioni con le persone che ci circondano. Nonostante questo, spesso facciamo fatica a chiedere aiuto, perché significherebbe ammettere la debolezza di non riuscire a farcela da soli.
In realtà, decidere di rivolgersi a uno psicoterapeuta denota la capacità di fare fronte al meglio a un momento di difficoltà: lo psicoterapeuta è un professionista che, comprendendo il disagio psicologico, riesce ad aiutare le persone a superarlo, accompagnandole in un percorso che porta a un cambiamento profondo orientato al benessere.
Recarsi dallo psicoterapeuta, pertanto, non è una sconfitta: al contrario, è una decisione intelligente, che la persona prende dopo aver riconosciuto che le strategie messe in atto fino a quel momento non sono sufficienti e che è necessario l’aiuto di un esperto per trovare alternative più valide. 
È opportuno sfatare il mito secondo il quale chi ha bisogno dello psicoterapeuta è “matto”: attraversare momenti di disagio più o meno intenso fa spesso parte della vita e della crescita di ognuno, e non è affatto indice di una malattia psicologica. È invece “normale” e umano soffrire, stare male e avere paura, anche nei contesti dove queste emozioni sono considerate debolezze e incapacità di vivere.
Spesso si va dallo psicoterapeuta perché si attraversano tempi carichi di stress, perché si hanno problemi con il partner, per essere aiutati a superare un lutto o un avvenimento traumatico. Decidere di passare oltre queste difficoltà non significa attestare un fallimento personale ma scegliere di essere liberi.
Un supporto psicologico ad opera di un professionista qualificato può essere utile durante una crisi temporanea, o per affrontare al meglio una crescita interiore che porta a una profonda consapevolezza di sé e del proprio contesto familiare, sociale, lavorativo o scolastico. Può essere un valido aiuto durante i momenti di grande cambiamento della vita (gli ingressi scolastici, i cambi lavorativi, il matrimonio, la nascita dei figli e così via), che possono risultare difficili da elaborare e superare. Può ancora diventare importante qualora si senta di essere così tristi da non trovare conforto da nessuna parte, o di avere pensieri fissi che non si sa come scacciare, o di nutrire paura di qualcosa che ai più risulta innocuo, o di tenere comportamenti diversi da chi si considera “normale”.
Spesso la sofferenza psicologica non è percepita dagli altri, e anche per questo motivo c’è spesso la tentazione di nascondere i timori o il disagio. E questo fa sì che la persona sia attenta più alla salute fisica che a quella psicologica, rimandando la cura e addirittura negando l’esistenza di un disagio psicologico, arrivando a rivolgersi a un professionista solo quando i sintomi del malessere (per esempio ansia, panico, depressione) arrivano a essere troppo forti o addirittura ingestibili.
In tutti questi casi il supporto psicologico o psicoterapeutico può diventare essenziale per prevenire l’aggravarsi della situazione, e rappresenta una sorta di traghetto che aiuta la persona ad attraversare il proprio disagio interno fino alla sua attenuazione o scomparsa, ritrovando un giusto equilibrio fra la propria interiorità e il mondo esterno.
Con l’aiuto del professionista, la persona impara a capire come funziona la propria mente, quali sono i modelli che si tendono a riproporre sempre uguali; impara a conoscere le proprie risorse e a comprendere come utilizzarle. Lo psicoterapeuta lavora in sinergia con la persona per riscoprire le sue potenzialità e intraprendere un cammino insieme, con l’obiettivo di poterlo percorrere in autonomia il prima possibile.
L’obiettivo di un percorso psicoterapeutico è quello di raggiungere una spontanea e piena espressione di sé, avere una vita relazionale più soddisfacente e raggiungere una condizione di benessere che possa essere stabile e duraturo.

mercoledì 27 marzo 2013

il concerto di Frigieri

Mi ritrovo "per caso", leggasi grazie a un marito curioso e testardo, a inseguire il Frigieri fino al circolo Arci di Pontenovo, un piovosissimo sabato sera, in una serata che l'unica cosa che avrei voluto sarebbe stata quella di starmene acchioccolata sulla sedia a dondolo, libro in una mano, tisana nell'altra. E invece grazie alla tenacia di mio marito divento partecipe di un'istantanea piena e calda, forse anche un po' magica.
Molto lo ha fatto il luogo. La descrizione esaustiva e romantica del posto la leggete qui. Ed è proprio così come Frigieri lo descrive: un posto vivacissimo, dove si può ancora incontrare quell'anzianità nutriente e sorprendente, dove i ragazzi appassionati che curano la parte culturale hanno idee decisamente originali e politicamente importanti, che verrebbe la voglia di farla più spesso, la tratta Scandiano-Albinea-Pontenovo.
Ma la vera scoperta è stata proprio la cantautoralità di Frigieri. Ogni pezzo mi ha trovata con gli occhi umidi a rimpiangere di non conoscerne il testo.

Frigieri suona la chitarra e canta. E fa entrambe le cose molto bene. La sua voce rende molto più dal vivo che negli album in studio, è calda, pulita e con un bel timbro. Mi ricorda quelle delle canzoni che hanno costellato la mia infanzia, quelle delle canzoni di lotta che cantavo con la bocca ancora sporca di latte al posto delle ninne nanne.
Ma ciò che più ho amato di questo artista fin dal primo ascolto è la sua onestà. La sua chitarra è una chitarra onesta, capace, potente, incisiva e precisissima, senza tutti quei virtuosismi di abbellimento che spesso risultano assai noiosi. Ascoltando Frigieri ho la sensazione che non ci sia un accordo superfluo. E la stessa cosa dicasi delle sue parole: niente orpelli a favore di un linguaggio semplice, "di paese", ma non per questo (anzi, forse proprio grazie a questo) meno colto e meno profondo.
E la rabbia, la malinconia che fanno parte di (quasi) ogni pezzo non sono fini a loro stesse, non sono mosse da una carica depressiva, ma comunicano una forte reattività, una potente spinta comunicativa all'esterno.
Questo mi è piaciuto di Frigieri.
E non guasta nemmeno che il ragazzo in questione è, oltre che decisamente belloccio, un vero animale da palco. Anche se il palco è piccolo, o non c'è proprio: ha una presenza importante, che riempie. Ed è bello toccare il rapporto che ha con la sua musica, lui la sua chitarra e i suoi occhi sempre chiusi.
Una bellissima serata.
(E poi scopro, il giorno dopo, che mio figlio cinquenne canta a memoria "Chi ha rubato le strade ai bambini")...

sabato 19 gennaio 2013

Genitori sufficientemente buoni

questo articolo è stato pubblicato su elencopsicologi.it.
l'ho scritto per il giornalino della scuola materna che frequenta mio figlio, dove sembra che per quest'anno sarò io a curare la rubrica "genitori quasi perfetti".
questa idea di perfezione mi è sembrata la prima da dover affrontare, perché so che ha turbato i sonni di più di una madre (e in misura forse minore anche quelli di alcuni padri).


Da quando è nato mio figlio, mi sono dovuta quotidianamente confrontare con la paura di non essere abbastanza per lui: abbastanza presente, abbastanza affettuosa, abbastanza capace, morbida, efficace, stimolante... La tentazione di ambire come madre alla perfezione, evidentemente piuttosto narcisista, mi ha rovinato qualche pennichella. 
Fortunatamente il buon senso, l'aiuto di chi ha avuto pregresse esperienze e qualche conoscenza dovuta ai miei studi mi hanno fatta presto uscire dal tunnel della rincorsa di una illusoria perfezione, ricerca che per altro avrebbe avuto come risultanti solo quelle del senso di fallimento e della frustrazione. 
Del resto, mi sono accorta presto che era tutto più complicato di quanto la mettessero giù nelle tonnellate di libri che mi ero divorata nei nove mesi di preparazione all'essere genitrice, che avevano placato le mie ansie ma che, di base, erano servite solo a quello.
Poi, fortunatamente, nelle mie peregrinazioni letterarie post-partum, mi sono imbattuta nuovamente in quel geniale psicoanalista inglese di nome Donald Winnicott, su cui avevo svolazzato in epoche adolescenziali con poco interesse, ma che nella mia nuova condizione di madre è diventato un faro illuminante. Quest'uomo ha avuto la geniale idea di liberare la figura materna dall’opprimente compito del dover essere perfetta e infallibile a tutti i costi, pena il provocare traumi irrevocabili ai propri figli. Già il fatto che amasse i Beatles me lo rendeva simpatico, ma il suo considerare preferibile a una madre che non sbaglia mai una donna spontanea, autentica, affettivamente presente con tutto il suo bagaglio di contraddizioni e imperfezioni, lo ha fatto diventare per me una fonte di ispirazione continua.
Winnicott ha coniato l'espressione di “madre sufficientemente buona” per descrivere quella madre che ha ansie, preoccupazioni, passioni anche forti (e metto dentro a questo bacino anche la tanto insultata, invece essenziale, rabbia), stanchezze e incertezze, ma nonostante queste (anzi, grazie anche a queste) è capace di essere affettivamente presente e di trasmettere al suo bambino amore e protezione. Gli errori che si commettono diventano preziosi: se non incateneranno ai maledetti sensi di colpa, allora potranno servire per costruire altre scelte, altre ipotesi, altre domande, e arricchire i rapporti familiari (gli stessi concetti espressi da Bettelheim nel suo “Un genitori quasi perfetto”).
Le intuizioni di Winnicott si spingono anche oltre: egli ammette come la madre sufficientemente buona abbia “molte buone ragioni per detestare suo figlio”, aggiungendo come però nonostante questo riesca a occuparsi adeguatamente delle sue richieste e dei suoi bisogni. In quanto genitori abbiamo quindi come compito non quello di ricercare un'ideale di perfezione, ma quello che è il massimo possibile per noi, l'accettarci con le nostre qualità e i nostri limiti, cercando di esserne sempre più consapevoli, imparando a migliorarsi ove possibile.
La genitorialità che riusciremo quindi a conquistarci sarà allora fatta sulla base della nostra esperienza personale, del nostro modo di essere, costruita su quei momenti positivi e pieni di grazia che ben conosciamo, rinforzata anche dai dubbi e dagli scivoloni che fanno parte di noi e del nostro percorso. Del resto, è proprio di questo genitore sufficientemente buono che il bambino ha bisogno per imparare a gestirsi autonomamente. Il compito materno (e quello paterno, aggiungerei senza dubbio) è anche e soprattutto quello di supportare l'afflato spontaneo e progressivo che ha il bambino verso l'autonomia e l'indipendenza. Per fare ciò, è necessario che noi tutti si impari anche a lasciare che il nostro bambino faccia esperienza della frustrazione, perché proprio le piccole frustrazioni quotidiane sono necessarie alla sua crescita, poiché lo spingono a cercare altro. Imparando che la madre o il padre non possono essere sempre disponibili per lui, scontrandosi con i bisogni e i desideri di altre persone diverse da lui, accettando di doversi relazionare con qualcosa d'altro rispetto a sé, il bambino diverrà gradualmente pronto ad affrontare l'esterno, verso il quale abbiamo il dovere, io credo, di insegnarli ad avere un'intelligente fiducia.
Il compito difficile cui siamo noi tutti chiamati in questo senso è quello di spronare con tranquillità i nostri figli ad uscire dal nostro abbraccio, fornendo però un porto sicuro, sufficientemente buono, dove poter tornare ogni qual volta lo desiderino e ne abbiano bisogno.
Ritengo che una delle più grandi sfide dell'essere genitori sia proprio quella di riuscire a regalare a nostro figlio gli strumenti per poter comprendere quale sia la sua strada, dandogli uno zaino capiente e funzionale per poterla percorrere, insegnandogli con l'esempio come sia possibile fare errori senza per questo perdere di integrità, e come sia appagante e piena di passione la vita di un genitore non perfetto, ma “solo” sufficientemente buono.
Bibliografia


D. Winnicott, Colloqui con i genitori, Cortina, 1993 

D. Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente: studi sulla teoria dello sviluppo affettivo, Armando, 1974 
B. Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli, 2002 
P. Maraone, Ero una brava mamma prima di avere figli, Rizzoli, 2009 
C. Santamaria, Quello che le mamme non dicono, Rizzoli, 2010

venerdì 18 gennaio 2013

vita

la concentrazione su quanto sia importante vivere intensamente qualsiasi cosa io faccia: uno dei propositi più ambiziosi di quest'anno appena iniziato.
la vita è per me così bella, così imprevedibile e così generosa da indurmi a danzare di contentezza, oggi, sotto questo sole freddo e questo cielo tersissimo.
il mio Maestro mi ha ripetuto spesso quanto sia fondamentale per un buon terapeuta provare un autentico amore per la vita, necessario per poter offrire un porto sicuro a chi viene a chiedere aiuto. ebbene, mai come oggi sento in me fiducia e possibilità. ottimo terreno sul quale seminare.
comincio da qui.